Un caffè con ... ORANGERIE
Intervista #12
Siamo oggi in compagnia di Luigi ed Eleonora, che insieme danno vita ad un interessantissimo duo chiamato Orangerie. Ciao ragazzi e benvenuti. Come di consueto partiamo dalle presentazioni: come nasce il vostro progetto e a cosa deve il suo nome?
E. Ciao ragazzi e grazie mille per averci contattato! Con Luigi ci siamo conosciuti per caso nel 2015, in un modo anche buffo. Eravamo su una pagina di approfondimento musicale su Facebook e abbiamo commentato (male, a tratti malissimo) lo stesso post. Da lì, abbiamo iniziato a parlare in privato della musica che invece ci piaceva, fino a pensare di suonare insieme e provare a fare qualcosa. Siamo entrambi chitarristi (e cantante, io), e io già scrivevo per conto mio, ma non avevo mai chiuso un pezzo fino ad allora. Solo con Luigi ho iniziato a capire che forse quegli sketch musicali che tanto mi piacevano potevano diventare canzoni vere.
L. Credo fosse La Repubblica XL… A parte questo, passammo la prima giornata di prove a suonare Disintegration dei Cure su una scalcinatissima tastiera che mi portavo dietro dall’infanzia. Insomma, l’ambiente casalingo è sempre stato per noi una sorta di santuario in cui rifugiarsi e combinare spunti e creare brani, sin dal primo giorno.
E. Quanto al nome, contrariamente al pensiero comune, Orangerie non prende ispirazione dalla famosa galleria d’arte impressionista parigina, bensì da una sala concerti di Bruxelles. L’Orangerie infatti fa parte del complesso del Botanique, il giardino botanico comunale della capitale belga, ospita concerti ed eventi in generale. Pre-Covid amavo molto viaggiare per vedere i concerti delle mie band preferite, e quella sala mi stregò: era bellissima. Perciò, pensando e ripensando al nome da dare al progetto, mi venne in mente quella sala e quel nome. Ne parlai con Luigi e piacque molto anche a lui. Speriamo di poterci suonare un giorno, prima o poi.
Veniamo alla genesi del vostro EP d’esordio ‘Not Quiet’. In un’epoca in cui tutto si muove in maniera frenetica e l’attenzione rivolta ad ogni cosa è quasi sempre rapida e superficiale, il vostro fluire va totalmente controcorrente: avete sfornato un primo singolo nel 2019, un secondo nel 2020 ed infine il vostro primo EP a maggio 2021, quasi a voler dilatare all’estremo i tempi di azione e l’attenzione da dedicare ad ogni singola canzone. Cosa c’è dietro questa scelta?
E. In tutta onestà questa “strategia” di tattico ha molto poco. Abbiamo avuto la sfortuna di uscire con il nostro primo singolo Rapid Eye Movement nel dicembre 2019, poco prima che scoppiasse la pandemia e ci ritrovassimo chiusi in casa. Molto - se non tutto - quello che è venuto dopo è stato dettato dal non potersi esibire. Scriviamo canzoni per poterle suonare, e il fatto di non poter promuovere attivamente il disco ci ha frenato dal pubblicare l’EP prima. Abbiamo lanciato il singolo Evening Air in piena pandemia, ma con la speranza che l’estate potesse cancellare quel brutto inverno e permetterci di prepararci alla pubblicazione. Per noi non è stato così, e abbiamo iniziato a posticipare la release arrivando al punto di aver iniziato a scrivere nuovi brani, rischiando di allontanarci troppo – sia emotivamente che musicalmente – da quello che avevamo creato con not quiet. Per andare avanti, non devi lasciare nulla di non detto e not quiet rappresentava quel non detto, ecco perché abbiamo deciso di farlo uscire adesso.
L. Col procedere della pandemia ci siamo ritrovati in un buco nero, come molti altri artisti che si stavano avviando in questi mesi: settimane e settimane a posporre l’uscita, idee per i live, servizi fotografici, videoclip, progetti, e intanto si continuava a comporre, fisiologicamente. E con le nuove composizioni si creava una linea di demarcazione dalla nostra “nascita” discografica con l’attuale EP. A un certo punto, la parte più bella di not quiet era diventata quasi quello che ci sarà dopo not quiet. E questo era un gran peccato, perché proprio nel rendere pubblici questi quattro brani ci siamo riavvicinati ad essi. Siamo molto contenti del lavoro svolto, di aver potuto raggiungere un certo grado di chiarezza in termini di orizzonti sonori già dalla prima manciata di brani, senza comunque dimenticarci di possibili margini di miglioramento.
Le vostre sonorità fondono in maniera molto equilibrata la tradizione del cantautorato folk più intimo ed introspettivo con suoni fortemente contemporanei, specie nelle ritmiche. Il primo paragone che viene in mente è quello con gli inglesi Daughter, ma sicuramente avrete tante cose nei vostri background che contribuiscono a costruire il sound degli Orangerie. Vi va di raccontarcele?
E. Hai indovinato. I Daughter sono uno dei gruppi a cui guardiamo più da vicino. Quanto a me, personalmente, ho cambiato modo di suonare e scrivere la musica da quando ho iniziato ad ascoltare Ben Howard - proprio nel 2015. Nel panorama musicale attuale è l’artista che più si reinventa, e lo fa fondendo quella tradizione di cui parlavi tu prima - tra folk e suoni contemporanei. Il mio stile è fortemente caratterizzato dagli arpeggi, che potete ascoltare in ogni nostro pezzo, mia cifra stilistica e ciò in cui Ben è maestro, nonché il mio maestro. Quanto alle ritmiche, guardiamo sempre con grande interesse tutto ciò che combinano quei geni dei National, che sono anche il mio gruppo preferito di sempre. Le batterie sono fortemente influenzate da loro e dalla loro recente svolta “elettronica”.
L. La questione background è decisamente complessa, io ed Eleonora siamo ascoltatori voraci e super critici e la cosa ovviamente si ripercuote sulle nostre aspettative per le composizioni di Orangerie. Confesso che a parte esser stato stregato da Ben Howard sempre grazie ad Eleonora, l’idea di dover lavorare con una voce femminile mi ha spinto verso questo genere. Ho molto amato gli arrangiamenti semplici, ma dal sapore orchestrale dell’ultimo album di Phoebe Bridgers, ‘Punisher’. Sicuramente Daughter, National e Ben Howard sono i riferimenti più diretti e palesi nella nostra modalità di scrittura dei brani, ma nella nostra formazione “ibrida” di duo dal suono molto organico e naturale a cui arrivare a mezzo di una formazione ridotta e con i giusti artifici “elettronici”, mi piace guardare anche ad artisti che hanno contaminato spesso e volentieri su basi simili, come Radiohead, Bon Iver e Moses Sumney. Spesso è una vera fatica far quadrare le cose, a partire dalle aspettative di ognuno di noi (io più tendente ad elettronica e soul, Eleonora alla new wave), ma solitamente ne vale la pena!
Diverse persone hanno collaborato alla realizzazione dell’EP, da Leila e Federico Leo che ne hanno curato la produzione, a Giorgio Maria Condemi che vi ha collaborato, fino a Iacopo Sinigaglia che ne ha curato mix e mastering. Hanno avuto un ruolo attivo anche nel processo creativo e nella scelta dei suoni?
L. La genesi di not quiet è stata per certi versi persino traumatica. Nonostante avessimo idee e ispirazioni concrete e brani già ben definiti in fase di demo, era la prima volta che affidavamo questi brani ad altri professionisti, la prima volta in cui dopo anni di crescita silenziosa varcavamo il santuario domestico di cui ti parlavo prima, per dare un abito da gala a questi brani. A solidificare il materiale c’aveva già pensato la prova di vari piccoli live in Capitale, ma ripulire e ricostruire un brano e fissarlo su una registrazione in studio ha un sapore diverso. E in questo sicuramente dovrò ringraziare chiunque abbia collaborato all’EP per essere stato in grado di averci mantenuti freschi e in focus e per aver arricchito laddove la nostra spinta propulsiva andava a mancare. Da lì in poi è stato più facile rilassarsi, sperimentare e assorbire quanti più insegnamenti possibile dall’intero processo lavorativo. Devo dire che è stato bello.
E. Abbiamo sempre avuto un’idea di suono molto forte e precisa. Non avevamo dubbi. I nostri collaboratori hanno avuto la pazienza di guidarci e di non farci cadere nella tentazione di “esagerare”, con riverberi e delay di cui andiamo matti da buoni “nerd della chitarra”, o a ripulire sezioni ritmiche non propriamente complete. A tal proposito, Federico Leo (già produttore) ha suonato e programmato le batterie che potete ascoltare, mentre il basso è stato suonato da Giorgio Maria Condemi, al quale dobbiamo molto. La nonchalance con la quale affrontava le registrazioni è stata per noi una grande lezione di tecnica e professionalità.
E se doveste scegliere, senza porvi limiti, qualcuno con cui collaborare in futuro, con chi vi piacerebbe lavorare?
E. Se è lecito sognare, mi piacerebbe davvero lavorare alla produzione del nostro prossimo disco con Aaron Dessner, ormai produttore di punta della scena musicale americana. Aaron – oltre ad essere la mente creativa dei National - ha prodotto l’ultimo disco di Ben Howard, e questo non ha fatto che acuire il desiderio.
L. Aaron Dessner! Senza dubbio. Lo scorso anno è riuscito persino a farmi ascoltare Taylor Swift…
L’EP esce per Truebypass, piccola realtà calabrese a cui vogliamo un gran bene. Com’è nata la vostra collaborazione?
L. In seguito al più classico dei mailbombing a etichette e realtà alternative, con Federico e Raffaella si è subito instaurata una bella complicità condita da scambi di idee sempre interessanti. È da questo terreno comune che è nata la nostra collaborazione, forte delle piccole attenzioni che solo una realtà come Truebypass sa dare, e in un contesto di estrema libertà artistica. Sappiamo quanto sia difficile lavorare con un prodotto come il nostro nel momento attuale, tra lingua inglese e sonorità dilatate e cinematiche. E tutto questo senza neanche metterci di mezzo l’attuale situazione sanitaria. Non può che renderci felici la fiducia che Federico e Raffaella ci hanno dato sin da subito.
A proposito di piccole realtà italiane: il vostro stile sonoro può essere considerato abbastanza di nicchia nel mondo indie nostrano, mentre si presta bene ad essere accostato anche a palcoscenici importanti all’estero, soprattutto nel mondo anglofono. Vi sentite parte della scena musicale che vi circonda o guardate soprattutto altrove? E quali sono i vostri obiettivi e i vostri sogni?
E. Come vi dicevamo, abbiamo avuto la sfortuna di affacciarci al mondo dei live con una tempistica esageratamente sbagliata. Non abbiamo avuto tempo e modo di entrare in una scena e sentirci parte di qualcosa. Sappiamo che il nostro sound nasce e si “riproduce” meglio all’estero che in Italia, ma ci piacerebbe fare cartello con i nostri simili italiani, perché esistono. Quanto all’estero, a chi non piacerebbe? Il nostro sogno è fare un vero tour, portare in giro la nostra musica e vedere il mondo dall’alto di un palco.
Veniamo al discorso live, sperando possiate ripartire al più presto. Sul palco siete in due o avete qualche collaboratore? Cosa dobbiamo aspettarci?
L. Il delicato equilibrio di Orangerie è dovuto anche al fatto che io ed Eleonora nelle nostre diversità siamo sempre riusciti a comprenderci e a produrre brani in grado di soddisfare entrambi anche nelle loro fasi più embrionali, ruotando da uno strumento all’altro per definire ogni linea melodica. Idealmente, almeno per i live, un terzo membro tuttofare lo vorrei. Anzi, potrebbe arrivare presto…
E. Ci siamo sempre esibiti in due, ma l’intenzione è di allargarci e diventare una vera band dal vivo. Dal momento che la sezione ritmica gioca un ruolo fondamentale nella nostra musica, sarebbe bello poterla suonare in tutta la sua fisicità.
Concludiamo con i vostri consigli per i nostri lettori: quali sono i vostri ascolti preferiti in questo momento?
E. Come avrai intuito, non posso non citare Collections from the Whiteout, il nuovo album di Ben Howard, bellissimo nella sua totalità. Poi, adoro la nuova scena punk e post-punk made in UK, e il recente Drunk Tank Pink degli shame mi è davvero piaciuto tantissimo. Voglio aggiungere anche un tocco retrò: ultimamente sto riscoprendo la discografia dei Talking Heads, in particolare Remain in Light… quel groove è irresistibilmente delizioso.
L. Ascolto da quasi un anno di fila Punisher di Phoebe Bridgers e A Hero’s Death dei Fontaines D.C. Vale? Devo dire che l’ultimo dei Manchester Orchestra, uscito qualche giorno fa, potrebbe finire col ritagliarsi qualche spazio nei miei ascolti ricorrenti…
E siamo purtroppo arrivati ai saluti, ringraziamo gli Orangerie per la disponibilità ed auguriamo loro ogni bene, sperando di rivederli presto su un palco.
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